MUSEO ETNOGRAFICO
Storia arte tradizioni
I Frati Cappuccini di Puglia sono presenti in Mozambico fin dal 1951.
Fin dal primo momento in cui hanno messo piede sul “sacro suolo” mozambicano, hanno sentito il fascino della sua gente, della sua storia, della sua società.
Fin d’allora è cominciato “quel qualcosa” che si può definire “innamoramento” con il popolo mozambicano.
Da questo meraviglioso popolo sono stati accolti, amati; nutriti di “nzima” e di affetto.
Li hanno presi per la mano e li hanno condotti nel sacrario della cultura e religione tradizionale; nelle intimità della loro cerimonie e dei loro riti; nei suoni e significati della loro lingua e nel senso della loro gestualità;
I missionari ne hanno apprezzato la cultura, le tradizioni, l’organizzazione sociale, la lingua, la religione tradizionale; i suoni, i colori, i sapori, il cibo; gli odori, i gesti, la musica, la danza, la festa, i lutti, la quotidianità, il dolore, la gioia, l’amore;
le foreste, gli animali, gli alberi, i frutti; il cielo australe, le albe, i tramonti, il sole, la luna, le costellazioni del Sud, le stelle;
il clima, il caldo, il fresco, l’umido, il secco, le piogge torrenziali, le siccità, i monsoni le “queimadas”; i fiumi, i laghi, le montagne, l’oceano Indiano, le maree alte, le maree basse; gli immensi spazi del territorio disabitato, l’infinità dell’orizzonte oceanico…
Il “Museo Etnografico Mozambico-Africa” è il risultato di questo rapporto dialogante di stima e di fiducia reciproca, di apprezzamento e valorizzazione dei valori, di amicizia e di reciprocità.
I regali si conservano.
Il Museo è ufficialmente aperto dal 1982, ma ufficiosamente già vivo da una diecina di anni.
I reperti delicatamente conservanti, sono stati attentante raccolti lungo il sessantennale “pellegrinaggio” spirituale, religioso, sociale e culturale di tanti missionari che hanno saputo guardare con stupore quanto la gente mozambicana produceva per suo beneficio.
Essi hanno saputo scoprire il plusvalore umano, culturale, artistico che oggetti e manufatti contenevano in se stessi e li hanno gelosamente conservati e riproposti a beneficio di altre culture e dell’umanità.
Li hanno ricevuti in dono, li hanno chiesti, li hanno comprati, li hanno fatto produrre;
li hanno cercati nei luoghi e situazioni più impensati partecipando a funerali, danze di iniziazione, a feste di matrimonio, alla fine di un lutto,
alla nascita di un bimbo, nei sacrifici rituali, nelle case di morti e feriti durante le due guerre, quella dell’indipendenza e quella civile;
nei riti di divinazione da parte di chi noi qualifichiamo col nome di “stregone”, nelle case dei “ganga” (curatori);
tra gli utensili di una donna che prepara il cibo, di un uomo che zappa il suo campo, che distilla la “nipa” (acquavite), che costruisce la sua casa, che tesse la sua stuoia, il suo cappello, il suo cesto, che intaglia una “mwadya” (canoa), che costruisce un giocattolo per il suo bambino.
I cantastorie con i loro strumenti, i gruppi di danza con le loro batterie di “ngoma” (tamburri), con le loro “variama” e “marimba” (xilofoni), gli “ganga” con i loro oggetti per la divinazione, sono stati coloro che hanno offerto le cose più pregiate e rappresentative di una cultura e di un popolo.
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